’91 / ’92 / ’93 – Tre anni di storia italiana
di Giulio Ambrosetti e Gianpiero Casagni – .
1. Antonino Scopelliti
Uno dei tanti uomini dello Stato non protetti dallo stesso Stato.
Il delitto, avvenuto il 9 agosto del 1991 a Campo Calabro, terra che gli aveva dato i natali, è rimasto avvolto nel mistero. O quasi.
Da una parte c’è il verdetto emesso dai giudici d’Appello di Reggio Calabria, che assolvono la ‘cupola’ di buscettiana memoria dall’accusa di aver ordinato l’omicidio del sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione che proprio alla Suprema Corte si apprestava a chiedere la conferma della condanna per gli imputati del maxi processo di Palermo.
Dall’altra parte c’è il pentito Giovanni Brusca, che racconta come in quella calda estate Cosa nostra non avesse ancora perduto la speranza di ‘aggiustare’ la sentenza. Antonino Caponnetto ricordava che la mafia aveva invano offerto a Scopelliti 5 miliardi di lire per ‘sistemare’ le cose.
Secondo Brusca, Riina ‘appreso’ che il maxi era ‘perduto’ decise di eliminare giudici, poliziotti e “gli amici che facevano politica per conto loro”.
La carneficina a rate avrebbe avuto luogo dopo la sentenza sfavorevole della Cassazione, per evitare che il verdetto negativo dei giudici venisse imputato alla ‘mattanza’ già programmata.
2. Salvo Lima
Una precisione nella mira così eccelsa non si era mai vista fino a quella mattina del 12 marzo del 1992, quanto meno a Palermo, città abituata ai ‘pallettoni’, ai kalashnikov e, soprattutto, al cu pigghiu pigghiu (a chi prendo prendo) dell’auto bomba utilizzata per uccidere il giudice Rocco Chinnici.
Per ammazzare Salvo Lima, uomo forte e chiacchierato della Dc di Andreotti in Sicilia, assoldano un killer professionista. Le pallottole lo strappano alla vita poco più di un mese dopo che la Cassazione aveva lasciato in carcere, a vita, un nutrito gruppo di boss mafiosi già condannati al maxi.
Promessa non mantenuta da parte dello stesso Lima? O promessa mantenuta da parte di Totò u curtu?
Come in una commedia di Molière, l’ipocrisia, dopo il delitto Lima, prende il sopravvento su tutto.
La città che lo aveva per lunghi anni votato quasi lo rinnega. I comunisti, che con il capo degli andreottiani siciliani avevano stretto per anni ‘patti’ di tutti i generi, fanno a gara per rimuovere il passato.
Falcone è a Roma, al ministero della Giustizia guidato dal braccio destro di Craxi, Claudio Martelli – nel governo presieduto da Andreotti – ed è preoccupato, molto preoccupato.
3. Giovanni Falcone
I grandi appalti erano il suo cruccio. Del resto, gli interessi della mafia, da sempre, ruotavano (e continuano a ruotare) attorno al denaro.
Tra la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, in Sicilia, si vociferava delle indagini del Ros sugli appalti e sugli interessi della mafia. Giovanni Falcone, di certo, era interessato ad approfondire l’argomento. Non a caso, aveva chiesto ai Carabinieri del Raggruppamento operativo speciale (Ros) di fargli avere il rapporto prima di lasciare il suo incarico di procuratore aggiunto a Palermo.
Per Falcone, la mafia aveva sempre avuto teste in Sicilia e tasche a Milano. Avrebbero potuto ammazzarlo facilmente a Roma, così si disse. Invece bisognava fare scruscio (rumore).
E che rumore, quel pomeriggio del 23 maggio lungo il tratto di autostrada che collega l’aeroporto di Punta Raisi a Palermo. Con lui muoiono la moglie e gli uomini della scorta. Li fanno saltare in aria all’altezza dello svincolo di Capaci.
La mafia, si dice.
Anche se permangono forti dubbi sul ruolo, anche operativo, di soggetti ‘altri’.
Solo mafia o, appunto, anche ‘altro’?
Di certo c’è che di grandi appalti si occuperà pure Paolo Borsellino finché avrà vita.
4. Mafia & Appalti
I grandi appalti. È il tema sul quale Falcone e Borsellino si arrovellano prima di essere ammazzati con le bombe.
Nel Sud, a partire dagli anni ’50, la realizzazione di grandi opere pubbliche viene affidata a grandi gruppi nazionali. Che, una volta arrivati nelle assolate contrade del Mezzogiorno, lungi dal denunciare le pressioni della criminalità organizzata, decidono di venirci a patti. Per quieto vivere. Anzi, per “la messa a posto dei cantieri”.
Allora come oggi le imprese che pagano il ‘pizzo’ alla mafia hanno “i cantieri a posto”. Chi non paga il ‘pizzo’ ha invece i “cantieri fuori posto”.
La Sicilia del 1992 è travolta da un fiume di denaro pubblico: i fondi ordinari nazionali, gli interventi straordinari nel Mezzogiorno (legge n. 64, alias 120 mila miliardi di vecchie lire), i primi fondi europei, il Fondo investimenti occupazione, i fondi regionali.
E, soprattutto, la metanizzazione dei Comuni siciliani, miliardi di vecchie lire a tempesta gestiti, in alcuni casi, direttamente dalla mafia (leggere Vito Ciancimino).
Quando Borsellino getta gli occhi sui grandi appalti, tutti i cantieri in Sicilia sono “a posto”. “Fuori posto”, secondo la mafia, è invece Borsellino. Che viene fatto saltare in aria.
5. Paolo Borsellino
Al Csm che aveva ‘azzoppato’ la corsa di Falcone alla guida della Superprocura antimafia (dopo averlo già‘stoppato’ una prima volta per la guida dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, preferendogli Antonino Meli), aveva mandato a dire: “Se si riaprono i termini sono disponibile a candidarmi alla guida della Superprocura”.
Parola di Paolo Borsellino che, nel frattempo, aveva già deciso di proseguire e approfondire il lavoro fatto da Falcone su mafia e appalti.
Ovviamente, Borsellino non si fidava. Di nessuno.
Soprattutto dei suoi colleghi.
Non a caso, si incontrava, in stile quasi ‘carbonaro’, con i Carabinieri del Ros. Per discutere dell’inchiesta su mafia e appalti che i colleghi della Procura di Palermo avevano incanalato lungo i tranquilli binari dell’archiviazione.
Milano ordina: uccidete Borsellino, è il titolo di un bel libro di Alfio Caruso.
In quel momento, in Sicilia, i grandi gruppi nazionali sono impegnati a gestire una mole impressionante di appalti con centinaia e centinaia di miliardi di vecchie lire che arrivano da tutte le parti.
Con quella che appare una fotocopia della strage Chinnici, il pomeriggio di domenica 19 luglio 1992, Borsellino e la suo scorta vengono spazzati via.
6. Agenda Rossa
Dalle fiamme di via Mariano D’Amelio non è mai riapparsa un’agenda rossa che i Carabinieri avevano regalato a Paolo Borsellino.
Secondo la Corte di Cassazione, non c’è la prova che quel pomeriggio del 19 luglio 1992 l’inseparabile agenda rossa fosse con il magistrato.
Un’ ipotesi è che possa essere andata distrutta perché fuori dalla borsa al momento dell’esplosione. Ma, come l’Araba Fenice, tanto cara a Metastasio, l’uccello mitologico che rinasce dalle proprie ceneri dopo la morte, “che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”.
Nemmeno chi è stato immortalato con la borsa del magistrato tra le mani. Perché, come hanno per l’appunto ribadito i giudici della Corte Suprema, se l’agenda non era dentro la borsa nessuno poteva rubarla. E infatti l’allora capitano dei Carabinieri, Giovanni Arcangioli, l’uomo con la borsa in mano, è stato prosciolto dalla magistratura.
Ma cosa conteneva questa benedetta agenda rossa? Ognuno immagina quello che vuole.
Con l’olimpica certezza di non essere mai smentito. Per molti c’era la spiegazione della morte di Borsellino. Per altri non c’era nulla di importante.
E la verità? In un’agenda rossa che, forse, non ritroveremo mai.
7. Vincenzo Scarantino
In Italia il post-stragi è sempre travagliato, da Piazza Fontana ai nostri giorni. Ma nel caso della strage Borsellino, come per magico incanto, gli investigatori trovano subito la ‘strada giusta’.
Anzi, senza dover neppure chiedere alla Polizia Scientifica di realizzare un identikit sulla base delle indicazioni di eventuali testimoni, bello e pronto, in un cestino della spazzatura, appare addirittura il ritratto, a matita, di una delle persone coinvolte.
Chi sarà mai? Il suo nome è Vincenzo Scarantino, un picciotto della Guadagna, popoloso quartiere di Palermo, che si autoaccusa di aver commissionato il furto dell’autovettura utilizzata per l’attentato. È lui a indicare i nomi degli esecutori materiali della strage.
Nessuno nel gotha della mafia lo conosceva. Gli unici che lo conoscono, ma non per vicende malavitose, sono alcuni trans, tra cui spicca tale Giusi la sdillabrata, protagonista di una particolare deposizione in Corte d’Assise.
La credibilità di Scarantino è però certa (o quasi).
Tant’è che, dopo le prime condanne irrogate anche sulla base delle sue dichiarazioni, sono stati aperti e conclusi vari procedimenti giudiziari.
Oggi si è rimangiato tutto.
8. L’Anonimo
Un disegno di mano anonima ha fatto arrestare Scarantino. E uno scritto anonimo ha raccontato una delle tante ‘presunte’ trattative tra Stato e mafia.
Questo avviene nell’estate del 1992, a cavallo tra la strage Falcone e la strage Borsellino.
Un anonimo pubblicato da un quotidiano dell’Isola il primo luglio del 1992, il giorno in cui Borsellino – che è tra i 39 destinatari delle otto pagine di ignota fattura – interroga il pentito Gaspare Mutolo a Roma e si catapulta al ministero dell’Interno proprio quando sulla plancia di comando di questo dicastero prende posto Nicola Mancino.
Sempre lo stesso giorno in cui, insomma, Borsellino sarebbe venuto a conoscenza della famigerata trattativa. L’anonimo è di giugno, la pubblicazione dello stesso anonimo è del primo luglio: tutto combacia nell’ipotizzare che Borsellino potesse essere già a conoscenza di una trattativa mafia-Stato.
Viene da chiedersi: questa trattativa, sbandierata dall’anonimo e finita su un giornale, è la stessa trattativa di cui parla Massimo Ciancimino?
E se è la stessa, perché mai Mancino avrebbe dovuto informare Borsellino, già informato dall’anonimo e dal quotidiano che l’aveva già pubblicato?
9. Bruno Contrada
Il cenone di Natale era pronto. Ma lui quella sera non desinò. Quel bravo investigatore vecchio stampo che era Bruno Contrada, già ai vertici della Squadra mobile di Palermo e poi numero 3 del Sisde (Servizi segreti civili), tutto si aspettava la sera del 24 dicembre del 1992, tranne che di essere addirittura arrestato.
Con un’accusa pesante come un macigno: mafia. Gli inquirenti sostengono che Contrada avrebbe intrattenuto rapporti fin troppo stretti con i mafiosi.
Lui si difende dicendo di essere un fedele servitore dello Stato. E spiega di aver fatto operazioni di intelligence con i confidenti per carpire ai mafiosi notizie nell’interesse della Giustizia.
La verità giudiziaria consegnata alla valutazione della storia dice che Contrada è colpevole. Ma i dubbi restano. Tanti dubbi.
Chissà: se magari avesse avuto qualcosa da raccontare agli inquirenti, forse il suo destino avrebbe potuto essere diverso.
Solo che Contrada non ha mai raccontato nulla al di fuori delle cose che ha detto.
E, soprattutto, non ha mai tirato in ballo uomini dello Stato.
E allora: Contrada ha tradito lo Stato? O è lo Stato italiano che, attraverso Contrada, avrebbe tradito se stesso?
10. Il covo di Totò Riina
L’aereo che portava a Palermo il nuovo Procuratore della Repubblica, il piemontese Giancarlo Caselli, non era ancora atterrato quando gli uomini comandati da un suo corregionale, il colonnello dei Carabinieri Mario Mori, gli consegnavano su un vassoio d’argento (non quello del processo Andreotti, per carità) Totò Riina, capo dei capi della mafia siciliana, un boss che per oltre trent’anni si era reso uccel di bosco.
È l’ultimo regalo del Ros prima che i rapporti con la magistratura si ‘raffreddino’.
Colpa della dimora di Totò ‘u curtu.
Infatti, dopo l’arresto, nel corso di una riunione piuttosto festosa, tutti i partecipanti, magistrati e investigatori, avevano concordato perfettamente in maniera chiara come procedere.
E l’avevano concordato così bene che, anni dopo, non è bastato un processo per chiarire cosa avevano deciso di fare. L’unica cosa chiara è che il covo di Riina non venne perquisito. E venne pure lasciato incustodito.
Chissà, magari nel covo, insieme a tante altre cose inutili e utili, avrebbe potuto esserci anche l’elenco (e non il papello!) dei “politici che facevano politica per i fatti loro”, personaggi che, fin dal 1991, indispettivano tanto Riina.
11. Giulio Andreotti
Tre mesi dopo l’arresto d’u curtu (alias Riina), una pattuglia di pm – tra questi i due che avevano chiesto l’archiviazione dell’inchiesta del Ros su mafia e appalti – guidata da Giancarlo Caselli chiede al Senato l’autorizzazione a procedere contro il senatore a vita e sette volte Presidente del Consiglio, Giulio Andreotti.
Accusa formulata: mafia, baci & vassoi.
Una Dc che si andava definitivamente sciogliendo al calore di Tangentopoli consegnava su un altro vassoio d’argento (e siamo a tre vassoi) la testa di Andreotti.
L’inchiesta giudiziaria sul notabile democristiano si dispiega dopo il geometrico-balistico assassinio di Lima, l’uomo che avrebbe potuto raccontare vita, morte e miracoli dei veri rapporti tra gli andreottiani di Sicilia e l’universo economico, malavitoso e politico dell’Isola, con riferimento a tutti i partiti siciliani, Pci compreso.
Con Lima calato nella tomba, la vicenda giudiziaria confezionata su misura dell’uomo simbolo della Dc perde un possibile, grande protagonista.
Il processo del secolo, che si concluderà alla fine degli anni ’90, culminerà nella più grande e cocente sconfitta del pool di Caselli, ovvero con l’assoluzione di Andreotti.
12. Ignazio Salvo
Il 17 settembre del 1992, a Casteldaccia, nella villa di famiglia sul mare, a due passi dall’hotel Zagarella, una scarica di piombo fulmina Ignazio Salvo, fino al 1981 ‘re’ incontrastato delle esattorie siciliane insieme con il cugino Nino, che era passato a miglior vita, ma di morte naturale, nel 1986 (secondo la leggenda, ovviamente infondata, Nino Salvo sarebbe vivo e vegeto, mentre la sua morte sarebbe stata una farsa: tesi messe in giro da chi tende a mitizzare i grandi mafiosi anche dopo la morte).
Ignazio Salvo era la mente della famiglia, legato a doppio filo alla Dc. Ma i Salvo, già a partire dalla seconda metà degli anni ’50 del secolo scorso, intrattenevano ‘buoni rapporti’ con tutte le forze politiche, di maggioranza e di opposizione.
Celebre una seduta di Sala d’Ercole nei primi anni ’60, quando l’allora presidente della Regione, il Dc Giuseppe D’Angelo, si ritrovò praticamente da solo in una battaglia contro i Salvo: abbandonato dai suoi amici della Dc e, guarda il caso, anche dal Pci.
Anche Ignazio Salvo, sempre secondo il pensiero di Totò Riina, era uno “degli amici che facevano politica per conto loro”?
13. Stragi del 1993
Qualcosa cambia nel 1993. In Sicilia e nel Paese. Soprattutto a Firenze, a Milano e a Roma tra la primavera e l’estate del 1993.
Dove sembra di essere tornati ai bombardamenti di 50 anni prima.
La novità è che a mettere le bombe è la mafia che provoca 10 morti.
Una strategia inedita: si tratta, infatti, di un attacco al patrimonio artistico e monumentale d’Italia. Perché queste bombe?
Forse si vuole costringere lo Stato a venire a patti con la mafia. Per esempio, invitandolo a revocare il carcere duro per i boss mafiosi detenuti.
Una scelta assolutamente inaccettabile per uno Stato ‘moralmente integerrimo’ che, dallo sbarco degli americani nel 1943 alla ‘cattura’ di Salvatore Giuliano, dal caffè ‘corretto’ servito a Gaspare Pisciotta al rapimento-rilascio di Ciro Cirillo, non ha mai trattato con la criminalità organizzata.
L’Italia, come recita De Andrè nella canzone Don Raffaè, guarda caso dedicata al boss della camorra Raffaele Cutolo, “s’indigna, s’impegna poi getta la spugna con gran dignità”.
E infatti è con grande dignità che, nel novembre del 1993, non vengono rinnovati i ’41 bis’ a 140 detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone.
14. Il Papa Giovanni Paolo II
Nel maggio del 1993, dopo che già all’indomani dell’omicidio del generale Dalla Chiesa, il Cardinale Salvatore Pappalardo aveva parlato di “Sagunto espugnata”, arriva dalla valle dei templi di Agrigento l’affondo definitivo di Santa Romana Chiesa contro la mafia.
Papa Wojtyla lancia un invito al pentimento ai mafiosi, un appello ai siciliani affinché rinuncino ad ogni compromesso con la mafia e a tutta la politica italiana che, in quel momento, si sta lasciando alle spalle la Prima Repubblica devastata da Tangentopoli.
La risposta della mafia non si fa attendere: il 15 settembre dello stesso anno, sotto i colpi di un killer di Cosa nostra cade don Pino Puglisi.
L’anno prima a Palermo si registrava una clamorosa inchiesta giudiziaria sul Banco di Sicilia. Sotto accusa, per falso in bilancio, era finito tutto il consiglio di amministrazione dell’epoca. L’inchiesta si concluse, però, con l’archiviazione.
Negli stessi mesi, a maggio 1992, chiudeva i battenti L’Ora, quotidiano del pomeriggio che per oltre 50 anni era stato il giornale progressista della Sicilia. Si spegneva così una voce libera che, benché egemonizzata dal Pci, era aperta alle istanze libertarie di tutta la sinistra e dialogava con il mondo cattolico.
Frai primi giornali a parlare di mafia ‘pagò’ con la vita del gornalista Mauro De Mauro il suo impegno.
15. Gli smemorati
Grazie alla recente riviviscenza di ricordi, da parte di personaggi che avrebbero dovuto rivelare da tempo ciò che sapevano sulle stragi nel 1992, siamo costretti ad arrivare a fine 2009.
Rimembranze che riportano all’anno zero una parte delle indagini sulla strage Borsellino. E costringono noi a non seguire alla lettera l’ordine cronologico.
I protagonisti di questa memoria ritrovata sono Claudio Martelli, Liliana Ferraro, Luciano Violante e, ultimo in ordine di tempo, Nicolò Amato, che nel ’93 era al vertice del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria.
Non rientra nell’elenco degli smemorati Massimo Ciancimino, perché, come ha sottolineato più volte, nes-suno, prima, gli aveva chiesto notizie su certi argomenti.
La dichiarazione più inquietante è comunque quella di Amato, che oggi conferma di aver ricevuto pressioni dal Viminale, retto allora da Nicola Mancino, affinché fosse revocato il41 bis mafiosi.
Questo succedeva quando capo del governo era Carlo Azeglio Ciampi e Presidente della Repubblica Oscar Luigi Sclfaro. Nel Paese dove le stragi di Stato restano impunite, dove dei grandi delitti di mafia non si trovano spesso i mandanti o gli esecutori (e dove talvolta non si trovano né mandanti, né esecutori), non c’è da stupirsi se si verificano vuoti di memoria.
Per fotuna colmati. Meglio tardi che mai (in verità, sarebbe stato meglio prima).
16. Giovanni Conso
“Nel 1993 non rinnovai il ‘41 bis’ per centoquaranta detenuti del carcere palermitano dell’Ucciardone ed evitai altre stragi”.
Lo dice candidamente, e forse anche con un pizzico d’orgoglio, Giovanni Conso, giurista insigne, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia.
Le tante pubblicazioni e le altrettante trasmissioni televisive di quegli anni, chissà perché, non valorizzano questo ‘insignficante’ elemento e,soprattutto, la clamorosa consecutio temporum tra le bombe di Firenze, Milano e Roma e i ‘festeggiamenti’ nel carcere del capoluogo siciliano dopo l’addio al ’41 bis’ per il bel grappolo di detenuti.
Naturalmente, aggiunge Conso, “da parte mia non c’è stato mai neppure il barlume di una possibilità di trattativa”.
Bisognava mantenere il riservo, per questo Conso decise di tenere tutto tra sé e sé.
Scrive Il Fatto quotidiano: “Fu il frutto di una sua decisione solitaria, non comunicata ad alcuno, né ai funzionari del ministero, né al Consiglio dei ministri, né al Presidente del Consiglio, né al capo del Ros, Mario Mori, né al capitano De Donno, nemmeno al Dap”.
Sembra di leggere la citazione di Dionigi Areopagita che apre il romanzo Todo modo di Leonardo Sciascia.