Via D’Amelio. Candura: “Botte, minacce… e contraddizioni non rilevate dai Pm”

“Disseminavo contraddizioni e inventavo tante cose nella speranza che qualcuno dei magistrati capisse che c’era qualcosa non quadrava, ma purtroppo non è successo”. Così, deponendo a Caltanissetta al processo Borsellino-Quater, l’ex pentito Salvatore Candura ha ricostruito la sua ‘forzata’ collaborazione con la giustizia che gli è costata, in primo grado, una condanna a 12 anni per calunnia. Nel corso della lunga deposizione – costellata di interruzioni ai collegamenti in videoconferenza con gli imputati, che hanno costretto la Corte a lasciare l’aula bunker per trasferirsi a palazzo di Giustizia – il teste ha anche affermato di temere per la propria vita e per quella della figlia, raccontando inquietanti episodi, l’ultimo dei quali,  avvenuto 15 giorni addietro.

Salvatore Candura, piccolo ladro d’auto, venne arrestato il 5 settembre 1992 dai poliziotti del commissariato di via libertà per violenza sessuale e poi trasferito in Questura a Palermo. Il teste oggi ha raccontato l’interrogatorio negli uffici della Mobile condotto da Arnaldo La Barbera, “presenti Riccardi, Salvatore La Barbera e 3-4 agenti”.

Il tema violenza sessuale, per il quale era stato arrestato, ben presto si spostò sul furto della Fiat 126 di Pietrina Valenti utilizzata come autobomba il 19 luglio 1992 in via D’Amelio. “Io dicevo che ero estraneo sia alla violenza sessuale che al furto. Ad un tratto – ha proseguito il teste – i dirigenti sono usciti dalla stanza e sono rimasto con gli agenti. Mi hanno fracassato di botte, Presidente, non potete immaginarlo” ha detto Candura rivolgendosi alla Corte. “Mi hanno pure sbattuto la testa sul tavolo”.  Poco dopo rientrò Arnaldo La Barbera. “Io non avevo nemmeno la forza per piangere e lui mi disse: ’ne va della tua vita, ti faccio dare l’ergastolo, io sarò la tua ossessione. Devi dirmi che hai rubato tu l’auto e dirmi a chi l’hai portata”.

Secondo il teste La Barbera insistette “ore e ore su questo punto, voleva che gli dicessi che il furto me l’aveva commissionato Profeta. Era accanito. Mi diceva che mi avrebbe fatto avere la protezione e mi dava 200 milioni”.

Secondo il teste il defunto capo della mobile palermitana lo avrebbe anche invitato a fare il nome di Salvatore Tomasello,  una ‘spalla’ di Vincenzo Scarantino nei furti d’auto, e sostenere che la vettura era stata consegnata in una traversa di via Cavour. E così, alla fine, Candura fece. “Alla squadra mobile sono stato tenuto tre giorni. Poi – ha detto – quando sono stato portato con Luciano Valenti all’Ucciardone ho chiesto di parlare con un funzionario del carcere perché volevo ritrattare quelle dichiarazioni e dire cosa era successo. Sono entrate in cella tre guardie carcerarie e non ho avuto nemmeno il tempo di parlare: uno mi ha dato una testata e mi ha rotto il setto nasale e gli altri mi hanno picchiato a sangue. Poi massacrarono anche Luciano Valenti”.  Il teste ha quindi detto che anche il medico dell’Ucciardone, vendendolo poco dopo pesto – “mi avevano fatto pulire il sangue con uno straccio che si usava per lavare a terra” ha sostenuto – non aveva battuto ciglio. “Ma io ero ridotto così male che non hanno nemmeno potuto farmi le foto segnaletiche in carcere. E lo ha visto – ha detto – anche il pm che mi interrogava per la violenza sessuale, al quale ho dovuto dire che ero caduto dalle scale”.

Candura, che più volte nel corso dell’esame ha affermato di aver “passato 10 anni di inferno” per una cosa che dice di non aver fatto – “io non sono un criminale, ma solo un piccolo ladro d’auto” ha affermato – ha sostenuto di essere sempre stato ‘telecomandato’ da La Barbera e dal suo vice, Ricciardi. “Sfido chiunque signor presidente e signori della Corte – ha detto rivolgendosi ai giudici nisseni – a resistere a quelle pressioni”.

Secondo Candura, La Barbera e Ricciardi erano sempre presenti: prima e durante gli interrogatori. “E se durante l’interrogatorio di qualche magistrato io andavo nel ‘pallone’, chiedevano di sospendere. E durante la pausa mi indottrinavano”.

Spesso, a detta di Candura, lo stesso collaboratore di giustizia avrebbe indicato a La Barbera le incongruenze delle sue dichiarazioni rispetto a quelle di Scarantino, “ma lui mi diceva di non preoccuparmi”. E quando Scarantino cambiò le proprie dichiarazioni sul luogo di consegna dell’auto “capii che lo avevano indottrinato” ha sostenuto. Secondo Candura anche i funzionari di polizia Salvatore La Barbera e Mario Bo “erano a conoscenza del fatto che avevo reso false dichiarazioni ai magistrati”.

Candura, che dice di aver solo la voglia di dimenticare tutto,  però ha raccontato la sua vera verità il 10 marzo del 2009: il giorno dopo aver confermato agli stessi magistrati nisseni la precedente versione. Fu durante un confronto con Vincenzo Scarantino, all’epoca ancora fermo nell’addossarsi la responsabilità di aver commissionato il furto dell’auto, che Candura decise di raccontare di non aver avuto nessun ruolo in quel furto. “Pochi giorni dopo, l’interrogatorio a Caltanissetta, in un bar di Palermo, si presentarono due persone, che ritengo essere poliziotti, che mi invitarono a mantenere le mie vecchie dichiarazioni. Poi – ha rivelato oggi – mi hanno rubato la macchina che ho ritrovato smontata e con un cartello con su scritto “pentito” o “confidente” e poi – ha concluso il teste – 15 giorni fa hanno anche incendiato il motore del mio scooter. Io temo che facciano qualcosa a me o a mia figlia”.

Il controesame di Salvatore Candura è fissato per il 22 ottobre. Il processo prosegue domani.

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