La verità su Contrada nei labirinti della procura
di Gianpiero Casagni –
Capita anche che il presunto traditore venga aiutato dal suo accusatore. Succede all’ex numero tre del Sisde, condannato per concorso esterno alla mafia. Un libro scritto dal Pm che ne ha chiesto la condanna dà lo spunto per una nuova richiesta di revisione.
L’istituto della revisione di una condanna penale passata in giudicato dovrebbe essere un evento assai eccezionale. Ma, purtroppo o per fortuna, è sempre meno raro.
Il fine primario ed ineludibile dei processi, è quello della ricerca della verità: quella vera. Non deve, o non dovrebbe, esserci discrepanza fra verità processuale e verità storica.
Ed è per questo che, per mettere le ‘pezze’ agli errori giudiziari che si sarebbero compiuti negli anni, sempre più spesso si prova a mettere in moto il meccanismo della revisione.
Vito Roberto Palazzolo, che da anni è riparato in Sud Africa dopo una condanna definitiva per associazione mafiosa, per esempio, dal prossimo 5 maggio si vedrà rivisto il processo dalla Corte d’appello di Caltanissetta; Adriano Sofri ci ha provato davanti alla Corti di Milano e Brescia per poi vedersi confermare la condanna dalla Corte d’appello di Venezia; alcuni degli imputati condannati nei processi per la strage di via D’Amelio, si avviano ad un processo di revisione.
Anche Bruno Contrada, l’ex numero tre del Sisde, condannato in via definitiva a 10 anni di reclusione per un reato che non è espressamente previsto dal codice penale, il concorso esterno in associazione mafiosa, ci spera. È la terza volta che ci prova. Le prime due sono state rigettate senza neppure arrivare ad un vaglio, nel merito, di nessun giudice.
Per Bruno Contrada l’essere stato riconosciuto colpevole di un ‘reato giurisprudenziale’ come quello di concorso esterno in associazione mafiosa – composto dall’art. 110 del codice penale, (concorso), associato ad un reato ‘tipizzato’ come quello di associazione mafiosa, il 416 bis, che si applica a coloro che promuovono, dirigono, organizzano o fanno parte di un’associazione mafiosa – è inimmaginabile.
Ma, in verità, nemmeno quel 24 dicembre del 1992 Contrada avrebbe mai potuto immaginare di dover ‘seguire le orme’ delle centinaia di mafiosi che aveva acciuffato, trascorrendo la sua prima notte in una prigione di Stato. Lo stesso Stato che il più famoso e più odiato, dalla mafia e dai mafiosi, poliziotto di Palermo ha servito durante tutta la sua carriera, iniziata nel 1958.
Che fosse ‘odiato’ dai mafiosi lo attesta anche un mandato di cattura, spiccato dall’allora giudice istruttore di Palermo, Paolo Borsellino, che proprio per una “minaccia grave nei confronti del dottor Contrada Bruno, all’epoca dirigente della Criminalpol regionale e della squadra mobile di Palermo, per costringerlo ad omettere atti del proprio ufficio” ordinò l’arresto di personaggi di Cosa nostra del calibro di Leoluca Bagarella, Francesco Di Carlo, Pietro Marchese e Vincenzo Marchese.
Gli stessi che finirono in cella con la stessa ordinanza datata 27 giugno 1981 per l’omicidio di Boris Giuliano.
Cinque anni più tardi, sarà Giovanni Falcone ad informare Contrada di essere ancora nel mirino dei mafiosi, in particolare del boss Rosario Riccobono, a cui stava particolarmente vicino Gaspare Mutolo. E proprio in quell’interrogatorio del 13 settembre 1986, Contrada raccontò a Falcone della volta che andò a trovare nel carcere di Spoleto il cognato di Mutolo, Vincenzo De Caro, che aveva chiesto di incontrarlo per fornirgli informazioni sull’omicidio di Boris Giuliano.
In quell’occasione De Caro disse che Giuliano si era esposto troppo in indagini delicate senza avere l’appoggio di altri organi dello Stato che avrebbero dovuto sorreggere la sua azione, ma nemmeno nell’ambito della magistratura. In quell’occasione il cognato di Mutolo disse a Contrada di stare attento perché aveva sentito il suo nome, come oggetto di attentato.
Morti Falcone e Borsellino, che non avevano compiuto mai atti giudiziari formali nei confronti di Contrada, il bravo investigatore, come se vittima di una iattura, per sortilegio, viene trasformato in criminale. E quei contatti intrattenuti con i boss per avere informazioni e ‘soffiate’ si trasformano. La sentenza di condanna parla chiaro: Contrada si è macchiato del reato di concorso esterno in associazione mafiosa.
È stato processato senza vedersi addebitare una condotta particolare o contestare la commissione di un solo ‘reato-fine’ come, ad esempio, il favoreggiamento, omissioni di atti d’ufficio o abuso d’ufficio. Ha lottato, si è difeso. In suo favore hanno testimoniato integerrimi uomini delle istituzioni; ha avuto, sempre, l’amicizia e la solidarietà di persone come Francesco Cossiga, ma è stato condannato, quindi assolto e poi, definitivamente condannato.
Ora dopo aver scontato buona parte della pena inflittagli continua a protestarsi innocente e chiede di rivedere il suo processo perché ritiene immeritata la condanna subita.
La nuova richiesta di revisione presentata dall’avvocato Giuseppe Lipera, si basa su un fatto che il giudice non avrebbe conosciuto o apprezzato.
Si tratta di una vicenda raccontata in un libro di recente pubblicazione, scritto dal procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia, Il labirinto degli Dei.
Nel saggio l’autore ricorda di aver interrogato anche il collaboratore di giustizia, Vincenzo Scarantino (lo stesso che di recente ha confessato di avere detto il falso nell’ambito dell’inchiesta sulla strage Borsellino) che aveva annunciato nuove accuse a carico di Bruno Contrada, all’epoca già in prigione. Ingroia nel libro spiega che “le dichiarazioni a carico di Contrada erano minuziose e precise, apparentemente riscontrabili”.
Ma l’impressione che ebbe di Scarantino il bravo Pm di Palermo al termine dell’interrogatorio non fu delle migliori: “Era evidente che si trattava di un criminale di infimo livello. Possibile che sapesse cose tanto rilevanti?”. Ma nonostante i dubbi, Ingroia scrive di aver dato incarico alla polizia giudiziaria di “svolgere gli approfondimenti sulle vicende citate da Scarantino”. L’esito però “fu sconfortante.
Le dichiarazioni accusatorie in merito a Contrada erano riscontrate, ma solo in apparenza”. Ingroia scrive di aver quindi consultato “Alfredo Morvillo, contitolare con me del processo Contrada, e ci trovammo d’accordo. Quelle dichiarazioni non erano convincenti, come non lo era il teste”.
E così dopo aver consultato “Giancarlo Caselli, all’epoca procuratore a Palermo, decidemmo di non servirci delle sue dichiarazioni accusatorie. Esse pertanto non furono mai utilizzate dalla Procura di Palermo“ nel processo Contrada.
Le circostanze riferite nel libro di Ingroia, secondo la difesa di Contrada, non furono portate a conoscenza del giudice. “È certo che nel fascicolo del Pm non vi fossero atti riguardanti un interrogatorio fatto dal dottor Ingroia allo Scarantino, né dei successivi accertamenti, con esito negativo, a quanto pare, effettuati dalla polizia giudiziaria”.
Nel chiedersi come mai non si indagò per accertare il perché Scarantino avesse fatto quelle accuse a Contrada, chi gliele aveva suggerite quelle notizie ‘apparentemente riscontrabili’, e perché non fu promossa azione penale per calunnia nei confronti del pentito, (come, per esempio, fece Falcone, il quale accertata l’infondatezza delle accuse incriminò, tempestivamente, Giuseppe Pellegriti per calunnia nei confronti di Salvo Lima) la difesa dell’ex 007 – che ha anche presentato un esposto alla procura di Caltanissetta, al Pg della Cassazione e al Ministro della Giustizia – afferma che quella condotta della pubblica accusa “ha impedito alla difesa di esercitare tutte quelle azioni che avrebbero potuto chiarire il contesto in cui si andava maturando tutta la vicenda giudiziaria ed usare ogni strumento utile per fare emergere la verità”. Quella storica.
Non è la prima volta che, se è vero quanto afferma la difesa di Contrada, un verbale di interrogatorio non negativo nei confronti dell’ex 007 non viene depositato tempestivamente.
Capitò pure nel processo di primo grado, a istruzione dibattimentale chiusa, quando dal processo Andreotti (l’ex 007 e il senatore a vita avevano in comune l’avvocato Gioacchino Sbacchi) ‘saltò fuori’ un interrogatorio dell’aprile 1993 del pentito Francesco Marino Mannoia che, interpellato espressamente dai Pm di Palermo disse di non aver nulla da dire contro Contrada, salvo poi cambiare idea sette mesi dopo e muovere a Contrada una serie di dettagliate accuse.
Nel processo d’appello, che si concluse con l’assoluzione di Contrada, Francesco Marino Mannoia venne ascoltato in aula. Il pentito giustificò quel suo silenzio del 1993 perchè quel giorno era “stanco ed adirato” anche perché credeva di deporre soltanto sugli omicidi. Poi però, sempre nello stesso verbale aveva fatto lunghe e dettagliate dichiarazioni su Andreotti.
A sostegno della richiesta di revisione “anche – dice l’avvocato Lipera – una perizia che attesta come l’ipotesi di aver colluso con un sistema ‘nemico’ non è conciliabile con la sua disposizione caratteriale”.