Borsellino, l’ultima cena (a Roma)
di Gianpiero Casagni
«Ero certo che sarei stato chiamato, ma alla fine ho rimosso questa ipotesi, forse avevo dato un’importanza maggiore all’evento. Del resto quando nel 1988 feci un’intervista a L’Ora nella quale denunciai che in Sicilia gli appalti si vincevano con una pistola sul tavolino, non mi aveva chiamato nessuno…». Il senatore Carlo Vizzini conferma che dopo vent’anni da quell’ultima cena di Paolo Borsellino fuori dalle mura domestiche, alla quale parteciparono pure Guido Lo Forte e Gioacchino Natoli, nessuno gli ha chiesto di raccontarla in pubblica udienza (e nemmeno ai due magistrati, ndr). Fu quella una cena nella quale i commensali parlarono, per oltre due ore, dei rapporti fra mafia, imprenditori e appalti.
Un tema che secondo quanto riferì il ministro dei lavori pubblici di “cosa nostra”, Angelo Siino, provocò la decisione di “cosa nostra” di accelerare la decisione di uccidere Borsellino. Sul finire degli anni Novanta, Siino disse, infatti, che «l’accelerazione che portò alla morte di Borsellino fu dovuta al fatto che stava per affrontare il tema dei grandi appalti, la gestione di 120 mila miliardi spesi dai politici siciliani con l’accordo della mafia».
La cena avvenne a Roma, giovedì 16 luglio 1992. Tre giorni prima la strage di via D’Amelio e tre giorni dopo
la richiesta di archiviazione del procedimento “2789/90”, l’inchiesta del Ros dei carabinieri “mafia e appalti”, avanzata dai sostituti procuratori della repubblica di Palermo, Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato (vistata dal procuratore Pietro Giammanco il 22 luglio ed archiviata dal gip, Sergio La Commare, il 14 agosto dello stesso anno).
«Mi chiamarono – ricorda Vizzini – e mi chiesero “che fa, ceniamo assieme?”. Mi liberai dagli impegni e ci incontrammo in piazza di Spagna, dove c’era la sede del mio partito. Proposi di andare a cenare al ristorante il Moccoletto, dove andavo spesso per conviviali di partito».
Quella era la prima volta che Vizzini andava a cena con Borsellino. In precedenza l’aveva incontrato una sola volta, il primo giugno, quando era ancora ministro della Marina mercantile, per proporgli, fra l’altro, di utilizzare il carcere di Pianosa per i mafiosi. Vizzini, che aveva avuto varie occasioni di cenare con Lo Forte e Natoli, oggi “confessa”: «Quell’invito mi diede molta soddisfazione da un punto di vista morale. Borsellino mi riteneva affidabile tanto da poter andare a cena con lui. Mi sentivo appagato».
In un primo momento Vizzini riteneva che quella cena, giunta a conclusione di un lungo interrogatorio effettuato dai tre magistrati con il pentito Mutolo, «fosse un momento di loro svago. Poi, chiacchierando, i discorsi si svilupparono».
Oggi Vizzini ricorda le sensazioni più forti di quelle due ore di conversazione che ebbe come tema il rapporto fra mafia e appalti. «Siino – precisa – era già stato arrestato, ma non collaborava ancora con la giustizia. Dai discorsi ebbi la sensazione che Borsellino avesse capito il sistema, che sarebbe stato raccontato tre-quattro anni dopo dai pentiti, e cioè che il rapporto tra mafia e imprese non era più fondato sull’estorsione ma sull’accordo per la spartizione degli appalti, grazie a mediatori siciliani, e che ciò le imprese del nord
lo sapessero». Tutti i commensali dissero la loro, e Vizzini ricordò quando, nel 1988, rivelò notizie di pistole posate sul tavolino facendo gli esempi degli appalti della caserma di Monreale e della strada San Mauro Castelverde-Ganci. «Di Borsellino – ricorda – quella sera mi colpì lo sguardo profondissimo dal quale trapelava talmente poco che la mia idea fu di una persona che guardava oltre me. Non posso dire che non era sereno, ma non potrei dire che fosse ignaro di quello che poteva accadergli. Di trattative – dice Vizzini,
che è stato interrogato dalla procura di Palermo sulle misure di sicurezza adottate nel ’92 a sua tutela – non parlò».
Secondo Vizzini, però, «questo sistema di appalti era sostanzialmente un’altra delle cose su cui pezzi dello Stato potevano aver dato garanzie. Secondo me Borsellino è uscito dalla pista classica in cui stavano i magistrati ed è entrato in un campo minato in cui ha pestato due o tre mine contemporaneamente».
Carlo Vizzini non può annoverarsi di certo nella categoria degli “smemorati” e neppure in quella di coloro che hanno avuto, più o meno di recente, un ritorno di memoria su “dettagli” importanti, sulle ultime ore di Borsellino.
Di quella serata romana, infatti, parlò lo stesso 19 luglio quando disse di essere andato a cena con Borsellino e di aver «avuto la netta sensazione che stesse lavorando a cose importanti»; l’indomani, alla Camera, quando disse «ho visto il giudice Borsellino, con due suoi colleghi sostituti procuratori, giovedì: siamo andati a cena insieme qui a Roma, dove essi si trovavano per svolgere indagini; suppongo seguissero un filone molto importante. Ieri pomeriggio ho rivisto sul luogo del delitto i due sostituti che lo avevano accompagnato
giovedì a Roma. Guardandoli, la prima domanda che mi sono posto è stata la seguente: quale dei due sarà ammazzato per primo?». E poi, altre due volte in interviste rilasciate a quotidiani nazionali.
«Nel ’98 – ricorda – ne parlai incidentalmente nel corso di un processo per diffamazione a mezzo stampa, nel quale ero testimone, e successivamente alla Procura di Roma in un procedimento in cui ero parte offesa. Mi interrogava il pm Luca Tescaroli che, se non sbaglio, mandò le carte a Caltanissetta».
Che Borsellino fosse interessato a mafia e appalti, ed in particolare al rapporto del Ros dei Carabinieri – oggetto di una presunta fuga di notizie avvenuta nel 1991, che diede il via al caso Siino-De Donno-Lo Forte conclusosi con l’archiviazione di tutte le posizioni degli indagati, anche perché gli eventuali reati erano già prescritti, ma diede la stura ad una guerra infinita fra Procura di Palermo e Ros – lo ha riferito il magistrato Antonio Ingroia il 12 novembre 1997. Interrogato dal pm Antonino Di Matteo (che con lui oggi rappresenta l’accusa al cosiddetto processo sulla “trattativa”), rispondendo dinanzi alla Corte d’assise di Caltanissetta (della quale faceva parte il giudice Wilma Mazzara che oggi è a latere nel medesimo processo a Mori e Obinu) raccontò che dopo la strage di Capaci si soffermò sugli appunti dell’agenda elettronica di Giovanni Falcone nella quale erano stati annotati alcuni spunti riguardanti, tra l’altro, le indagini su mafia e appalti condotte dai carabinieri del Ros, su Gladio e la P2. Il teste riferì che Borsellino disse: «Giovanni non aveva l’abitudine di tenere un diario. Se ha deciso di appuntarsi queste frasi e questi riferimenti a tali episodi, vuol dire che dietro questi fatti e questi episodi c’è molto di più di quanto non appaia». Borsellino, insomma, voleva approfondire. «Uno di quelli cui egli mi fece riferimento – disse Ingroia – fu la vicenda relativa all’ormai famigerato rapporto del Ros dei Carabinieri su mafia e appalti, rispetto al quale ora non ricordo esattamente quale riferimento vi fosse nel diario di Giovanni Falcone e rispetto al quale Paolo Borsellino ebbe dei colloqui sia con ufficiali dei carabinieri sia con colleghi del mio ufficio per cercare, insomma, un po’ di ricostruire quella… la storia di quel rapporto». Per questo Borsellino insisteva con il procuratore Giammanco per avere le deleghe delle indagini su Palermo. Erano le 7 di domenica 19 luglio 1992 quando, parlando al telefono con il procuratore capo, Borsellino disse che «la partita è aperta» avendo
la promessa che l’indomani avrebbe avuto le deleghe.
Tratto da ‘Il Sud’ GIUGNO 2012