Borsellino-quater, teste: “Nessuna sede dei Servizi all’Utveggio”

“Al castello Utveggio di Palermo, non c’era nessuna sede del Sisde e non lo frequentavano neppure appartenenti ai servizi: sono 20 anni che lo vado ripetendo”. Lo ha detto Salvatore Coppolino, ex funzionario del Sisde, addetto alla tutela personale dell’ex Alto Commissario per la lotta alla mafia, il prefetto Pietra Verga, quando quest’ultimo venne nominato presidente del Cerisdi. Deponendo davanti alla Corte d’assise di Caltanissetta, dinanzi a cui si celebra il processo “Borsellino-quater”, Coppolino ha sottolineato “di non aver mai visto personale di mia conoscenza del Sisde, tranne nell’occasione che venne organizzato dall’Alto commissario, Domenico Sica, un convegno. Io – sottolineato – ero l’unico appartenente ai servizi al Cerisdi, con le finalità di tutela del prefetto Verga”.

Castello UtveggioRispondendo ai Pm che gli chiedevano se conoscesse Gioacchino Genchi, il teste, sorridendo, ha risposto affermativamente: “sono nei suoi libri”.

Coppolino ha quindi affermato di non aver mai visto Genchi, “finché c’ero io, fare un sopralluogo al castello dopo la strage di via d’Amelio”. Il teste ha, invece, rivelato un episodio inedito risalente a uno-due giorni dopo la strage. “Appena arrivo al Cerisdi per preparami ad andare a prendere il prefetto Verga, mi dicono che era venuto a cercare sua eccellenza Salvatore La Barbera, della squadra mobile di Palermo. Quando presi il prefetto gli dissi che lo avevano cercato e lui si mise in contatto con Arnaldo La Barbera”. Poco dopo Verga incontrò La Barbera “e gli consegnò un libro con tutti i nomi dei dipendenti del Cerisdi, specificando che mancava il mio nome perché ero del Sisde e non un dipendente del centro di alta formazione”.

Ad escludere ai giudici della Corte d’assise nissena la presenza di strutture del Sisde e di uomini dei servizi o di altre forze dell’ordine era stato poco prima anche Vincenzo Lamendola uno degli addetti alla sorveglianza del centro. “Il 19 luglio ero di servizio ed ero solo al castello Utveggio” ha detto il teste ricordando che solo nella torretta antincendio, posta sotto la struttura c’era un addetto “con il quale subito dopo l’esplosione scambiammo qualche parola per cercare di capire cosa fosse successo”.  Nessuno sopraggiunse fino alle 21 e non ci fu nessun “trasloco frettoloso” su cui si era fantasticato.

In avvio di udienza, sul pretorio si erano avvicendati Michele Davico e Maurizio Giarrusso, due poliziotti che avevano curato i trasferimenti del collaboratore di giustizia – e imputato di calunnia in questo processo –  Francesco Andriotta. Entrambi i testi hanno negato di aver sentito dire all’ex collaboratore di giustizia che aveva elementi per far saltare il processo per la strage di via D’Amelio.

Poi ha deposto Rosalia Pirrello, oggi comandante del distaccamento forestale ‘Palermo-falde’, la prima ad arrivare assieme a un collega in via D’Amelio subito dopo l’esplosione. La teste, dopo aver sentito la violenta esplosione,  ha detto di aver saputo via radio, dalla torretta posta sotto il castello Utveggio, che una nube di fumo si levava da via D’Amelio. “Mi ricordo di aver visto il dottor Ajala – ha detto –  è arrivato abbastanza presto”.

Prima di rinviare il processo al 5 novembre la Corte ha disposto l’acquisizione della lettera lasciata dal giudice Domenico Signorino, poco prima di suicidarsi. Della missiva aveva parlato in una precedente udienza, Gioacchino Genchi, definendola “agghiacciante, mi ha colpito più del suicidio, bisognerebbe rileggerla”. Sciogliendo la riserva la Corte ha poi respinto la richiesta di ascoltare in aula il sostituto della Dna, Gianfranco Donadio e la moglie di Vincenzo Scarantino, Rosalia Basile.

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