“La scuola s’è rotta” di Mila Spicola
Se si prova a parlare di scuola, a scriverne, lo si fa con un certo imbarazzo.
Si teme di annoiare, di risultare piagnoni. Come se ci si impegnasse per senso del dovere in favore di qualcosa che non ce la fa più a reggersi in piedi. Lo conosce bene questo imbarazzo paralizzante, Mila Spicola. Lo conosce bene questo sussiego un po’ svogliato in cui si lascia, da un pezzo, affondare la scuola.
Lo ha provato sulla sua pelle, negli anni d’insegnamento presso le scuole medie disagiate
della periferia di Palermo e nell’attività di responsabile scuola del Partito democratico. E proprio a questa paralisi, a questa indifferenza ha deciso di dire no nel suo La scuola s’è rotta, pubblicato da Einaudi (194 pagine, 18 euro).
Senza timori, con l’orgoglio e la passione di chi rivendica l’importanza della propria professione, di chi non si vergogna di «restituire la parola ai maestri». Anche a costo di apparire retorica, «ma se non sei retorica ti ascolterebbero?». Sceglie la finzione letteraria della lettera, per accrescere l’intensità della relazione con il lettore, per dare più slancio e sincerità al rapporto io-tu.
Indirizzate a don Milani, ai ministri Tremonti e Gelmini, al primo e all’ultimo della classe, per citare solo alcuni destinatari, le lettere scandiscono il libro in capitoli effervescenti e appassionati, in cui si parla chiaro, si dicono le cose col loro nome. Della scuola non si nasconde lo sfacelo, soprattutto quella del Sud e della Sicilia in particolare. Nella noncuranza generale gli edifici diventano fatiscenti, fuori norma e senza riscaldamenti si investe sempre meno nell’istruzione e si tagliano in maniera selvaggia
più di centomila posti di lavoro, si aumentano gli alunni dentro le classi e si riduce sensibilmente il tempo scuola, mancano i fondi per le necessità materiali dalla carta per le fotocopie a quella igienica e intanto il divario fra nord e sud si fa abissale alla faccia del diritto costituzionale all’istruzione. Ma non solo di devastazione ci racconta la Spicola.
Ci prospetta, invece, il disegno di una scuola che vuol essere davvero riscatto civile, luogo dove si forma, ci si prende cura, si immagina una coscienza personale che si misuri con l’infinità della sua possibile libertà. A patto che per libertà si intenda non la «omologazione del disordine », che fa degli umani una generazione di bulimici consumatori dell’ultima novità del mercato, iperattivi alla deriva o ipnotizzati dalle immagini virtuali pur di sfuggire a se stessi, alla profondità del pensiero e al terrore del vuoto che potrebbe aprirsi sotto le loro voglie effimere. Libertà è sapersi ritrovare un po’ come in carcere. Riconoscere il rapporto col limite (che è poi l’epoca in cui si nasce, le regole, il rapporto con l’altro, l’orientamento topologico, la tradizione da cui
si proviene…). Libertà è prendersi carico di questa consapevolezza, rendersi responsabile di questa consapevolezza, verso se stessi, verso gli altri e verso il mondo che ci sta attorno, verso il mistero che sostanzia la nostra fragilità e verso i nuovi orizzonti che nella nostra più generosa instabilità possiamo comunque dischiudere.
Nella scuola pubblica, contro chi vorrebbe trasformarla in un parcheggio per giunta noioso, la Spicola indica il luogo politico per eccellenza, dove ci si incontra nelle più disparate differenze e dove non si ha paura dei contrasti e delle commistioni, ma si fa di esse l’impulso per idee più miti e più generose. La scuola dovrebbe tornare ad essere il luogo dove si sperimenta
il diritto a essere migliori, ci si dedica a non consegnare il mondo alla bruttezza, ci ricorda Mila Spicola, per questo, in fondo, Rousseau e l’illuminismo inventarono la fanciullezza e il suo diritto-dovere all’educazione. Eppure la si lascia sfaldarsi.
Chiudendo il libro, mi è venuto in mente un delizioso aforisma di Wittgenstein: «la civiltà passata diventerà un mucchio di rovine, e alla fine un mucchio di cenere, ma sulla cenere aleggeranno spiriti». Che la scuola provi a sciogliere gli ormeggi, abbandoni il porto della indifferenza in cui è stata relegata, e riporti in viaggio gli spiriti, per donarci una responsabile felicità è il messaggio che Mila Spicola consegna alle sue lettere. Qualche volta esagerando nelle ripetizioni e nella retorica, qualche altra semplificando troppo, ma sicuramente risvegliandoci dalla nostra abulia e rimettendo le ali al pensiero.
Il senso di responsabilità a cui ci richiama la Spicola è il viatico per un possibile futuro e perciò non si può chiudere se non con una domanda finale. «Può la scuola essere un luogo di resistenza? Può un’istituzione pubblica sfuggire al tramonto se l’istituzione più grande da cui dovrebbe dipendere e per cui dovrebbe educare le nuove generazioni, la guarda con sufficienza, commiserazione e come nient’affatto esemplare? Un’epoca dedita a una percezione rapida, simultanea, fascinosa e distratta può ancora concedere spazio ad una percezione paziente, analitica e concentrata contando solo sulla buona volontà dei maestri?»
Da Repubblica del 5 dicembre 2010 – Di GIANFRANCO PERRIERA