Mafia. Scarantino, il collaboratore costretto anche a non ritrattare il falso
Il 27 luglio del 1995 nel corso di ‘Studio Aperto’, il Tg di Italia 1 il direttore Paolo Liguori ricostruì, con l’ aiuto del giornalista Angelo Mangano da Palermo, come era arrivata la telefonata del pentito Vincenzo Scarantino, trasmessa la sera prima. Dopo che Liguori parlò di “storia infinita, in cui si inseriscono molte scorrettezze”, Mangano ha spiegato: “Ieri, dopo che per tutta la mattina si erano rincorse le notizie del presunta ritrattazione di Scarantino, della smentita della Procura di Caltanissetta e del Ministero dell’ Interno, dell’ esistenza di una registrazione fatta dai familiari del pentito, ho fatto il cronista. Sono andato a casa Scarantino per ascoltare questa registrazione che purtroppo era di cattiva qualità. Quindi ho lasciato i miei numeri di telefono, compreso quello della sede Fininvest di Palermo, ai familiari di Scarantino nella possibilita’ che richiamasse. Dopo circa un’ ora ha richiamato sul mio portatile, confermando che voleva ritrattare. Gli ho spiegato che dal portatile non potevo registrare la telefonata. Dopo dieci minuti mi ha richiamato alla sede di Palermo, parlando da un telefonino, e l’ho registrato”. La cassetta con l’intervista venne poi sequestrata su disposizione della Procura di Caltanissetta.
Da quando è stato, suo malgrado, coinvolto in questa brutta storia Vincenzo Scarantino ha ‘collezionato’ condanne per complessivi 35 anni, 10 mesi e 20 giorni, 18 anni dei quali – comminatigli per la strage di via D’Amelio – scontati per intero. Sembra davvero troppo per quel picciotto del quartiere Guadagna di Palermo che quando aveva appena 27 anni, si autodefiniva “sveglio”, ma che così agli atri non sembrava affatto.
Su tutti Pietro Aglieri che ai pm di Caltanissetta il 6 luglio del 2010 ha detto di conoscere “Scarantino sin da quando era bambino e posso assicurare che lo stessonon avrebbe mai potuto far parte di un gruppo incaricato di eseguire la strage di via D’Amelio o qualsivoglia altro fatto delittuoso a me conducibile o da me ordinato …. Tutte le accuse che lo Scarantino ha reso sono false ed io ne ero consapevole…”.
Negli oltre 20 anni e mezzo trascorsi dalla strage Borsellino e dal suo arresto, avvenuto il 28 settembre del 1992, Vincenzo ‘Enzo’ Scarantino ha subito molto, troppo, dal punto di vista giudiziario: una condanna a 9 anni per traffico di droga mentre “maturava” al 41 bis del carcere di Busto Arsizio prima e di Pianosa dopo, un ‘pentimento’ che gli è valso una condanna a 18 anni per la strage di via D’Amelio della quale – stando alle nuove tesi della Procura di Caltanissetta – non sapeva nulla. Ma non solo: pur non avendo mai avuto rapporti organici con Cosa Nostra (che, conoscendolo, non lo avrebbe di certo ‘reclutato’ per una faccenda del genere) ha subito pure una ‘integrazione’ di condanna a 10 mesi e 20 giorni per associazione mafiosa.
Poi, quando – la prima delle varie volte che lo ha fatto – ha deciso di dire che aveva raccontato un mucchio di frottole spiegando di essere stato costretto da investigatori e magistrati inquirenti, si è ritrovato con una nuova condanna, inflitta dal Gip di Roma, peraltro con un rito abbreviato, ad 8 anni di reclusione, per calunnia nei confronti dei rappresentanti dello stato. Una condanna ‘esemplare’, ancorché ‘ridotta’ dal Gip, visto che l’americana Amanda Knox, che aveva accusato il musicista congolese, Patrick Lumumba di essere l’autore dell’omicidio di Meredith Kercher, ha subito, con il rito ordinario, dalla corte d’assise d’appello di Perugia, sempre per calunnia, una condanna a tre anni di reclusione.
Ma lo scettro del ‘record’ di condanna per calunnia, nell’ambito dell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio,da qualche giorno spetta a Salvatore Candura, sedicente smentito-autore del furto della Fiat 126 usata come autobomba, accusatore di Scarantino come ‘mandante’ del furto, che dopo anni dalle condanne all’ergastolo di sette innocenti, il 10 marzo del 2009, si è rimangiato tutto “assumendo – scrivono i magistrati di Caltanissetta nell’ordinanza di custodia cautelare della nuova inchiesta sulla strage di via D’Amelio – di essere stato costretto a rendere le dichiarazioni da alcuni funzionari della Polizia di Stato, tra cui il defunto dott. Arnaldo LA BARBERA, il dott. Salvatore LA BARBERA e il dott. Vincenzo RICCIARDI, funzionari – gli ultimi due – nei confronti dei quale si procede penalmente”.
A giugno dello scorso anno il credibilissimo collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, che per il medesimo reato contestato a Scarantino se l’è adesso cavata con tre anni in meno, 15 al posto dei 18 inflitti al ‘picciotto’ della Guadagna, ha riferito ai magistrati che “Scarantino fu picchiato in carcere a Pianosa, me lo ha detto Nicola Di Trapani”, con ciò confermando, de relato, l’usanza in voga alla diramazione ‘Agrippa’ raccontata dallo stesso Scarantino, ma anche dal pentito Marco Favarolo e dal palermitano Rosario Indelicato, che da innocente rimase 5 anni al 41bis di Pianosa e poi riuscì a far condannare i secondini.
In attesa di sapere se saranno trovati i riscontri e se la posizione dei funzionari di polizia sarà archiviata o meno, però, Vincenzo Scarantino dal 22 marzo scorso è nuovamente sotto processo per calunnia commessa in danno degli imputati condannati nei precedenti processi. Per non farsi condannare ancora una volta, dovrà essere lui, da solo, a dimostrare alla Corte d’assise di essere stato costretto a mentire. Solo dopo, infatti, la Procura concluderà le indagini sul presunto depistaggio e si saprà se Candura e Scarantino furono o meno costretti a mentire, da chi e con quali pressioni.
Nessuno, intanto, sembra chiedersi quale interesse avrebbe mai potuto avere Scarantino ad invischiarsi in una storia più grande di lui.
Ma pare che Enzuccio Scarantino, in fondo, sia un ‘pupo predestinato’. Alla squadra mobile di Palermo qualcuno, forse, aveva provato a mandarlo in scena già nel 1990 nell’ambito delle indagini per l’omicidio del poliziotto Nino Agostino e della moglie Ida.
Quel 9 agosto gli uomini della ‘Mobile’ di Palermo, guidati da Arnaldo La Barbera, convocarono il padre dell’agente ucciso e gli mostrarono sette fotografie per vedere se riconosceva fra quei visi i due giovani che si erano presentati a casa di Vincenzo Agostino, pochi giorni prima dell’omicidio, chiedendo del figlio e dicendo di essere suoi colleghi. Fra quelle sette foto, c’era anche quella di Vincenzo Scarantino. Quella volta nessuno indicò Enzuccio che, per fortuna sua, rimase fuori da quelle indagini.