Trapani, mafia d’élite

di Gianpiero Casagni – Nella città di Messina Denaro non si paga il pizzo, le denunce all’antiracket si contano sulle dita di una mano e la criminalità è ai minimi storici. Un’oasi felice? No, è il segno di un accordo fra Cosa Nostra e alcuni imprenditori. Come sostengono giudici e poliziotti

TRAPANINegli anni ottanta chi conosceva bene Matteo Messina Denaro e lo invitava ai festini hard di Palermo, per ‘svezzarlo’ con signore dell’alta borghesia cittadina, non gli avrebbe dato nemmeno ‘cinque lire’. Invece, adesso, con la borghesia, trapanese e non, secondo gli investigatori, il superlatitante sarebbe in affari miliardari.

Quella di Trapani, infatti, è la provincia dove sentenze della magistratura, hanno accertato un’altissima commistione fra una parte dell’imprenditoria e la mafia, e dove la borghesia, imprenditoriale e non, protegge la latitanza dell’ultimo dei capi di Cosa nostra in circolazione.

A Trapani, tutto è tranquillo e pulito. La città, da quando si è rifatta il look per la Coppa America, è rinata. Gli unici clamorosi fatti di sangue che si ricordano sono datati: gli omicidi del giudice Giangiacomo Ciaccio Montalto (1983), del giornalista Mauro Rostagno (1988) e il fallito attentato al giudice istruttore Carlo Palermo (1985).
Eppure, secondo quanto risulta agli investigatori, in provincia di Trapani, divisa in 4 man-damenti, controllati da 17 ‘famiglie’, ‘operano’ circa 720 maἀosi. È evidente però che operino in maniera diversa rispetto agli altri mafiosi dell’isola.

Emerge, infatti, una scelta contraria all’uso della violenza e sembra regnare una sorta di pax mafiosa.

L’odioso pizzo ‘porta a porta’ che sono costretti a sopportare i commercianti delle altre province, a Trapani, quasi non esiste. Nella provincia, però, così come ad Alcamo, esistono associazioni antiracket che, quasi ‘ovviamente’ non ricevono alcuna denuncia (o davvero poche). Nel capoluogo, se chiedi, ti dicono «nessuno paga il pizzo».

Salvo poi, quando qualche raro incendio distrugge un’attività commerciale, essere indotti a pensare, ragionando al contrario, che forse, proprio quel commerciante, era l’unico a non pagare il ‘fio’ alle cosche che garantiscono la pace e la serenità in città. Quella di Trapani è una provincia dove l’associazionismo sembra una vera, ‘sana’, passione. Oggi basta scorrere i siti internet ufficiali e ci si accorge che esistono ben 12 Rotary club e sette Lions club.

Esistono pure otto logge massoniche (Grande oriente e Loggia regolare) in una provincia in cui, in passato, ne sono state scoperte tre ‘deviate’. Ci si associa, insomma. Ma dall’altra parte della barricata opera una potentissima associazione mafiosa che nel capoluogo, come ad Alcamo e Marsala è più imprenditoriale mentre a Calstelvetrano e Mazara del vallo è più all’antica.

«Se si arresta Messina Denaro, non è che la maἀa in provincia di Trapani si sconfigga. Non è successo quando sono stati arrestati i boss Virga o Mangiaracina. Cosa nostra ha una struttura secolarizzata».
Secondo il capo dell’anticrimine di Trapani, Giuseppe Linares, che è nato proprio in questo lembo di terra che si insinua nel mare e lavora qui ‘da sempre’ (prima era il capo della squadra mobile), quella trapanese è prevalentemente una «Cosa Nostra dei salotti con potenti collegamenti istituzionali».
È una «borghesia mafiosa che coopta gli imprenditori». Sussiste, insomma, una fortissima tendenza all’affarismo con una mescolanza di soggetti appartenenti alla mafia ed all’imprenditoria.

Un esempio eclatante è la vicenda della Despar il cui vecchio patron, Giuseppe Grigoli, viene considerato dagli investigatori il braccio finanziario di Matteo Messina Denaro. È lo stesso boss trapanese, in un pizzino inviato a Bernardo Provenzano, a svelare come funzionerebbero le cose nella ‘sua’ provincia anche in materia di ‘pizzo’ dopo che un maἀoso agrigentino aveva tentato di chiederlo a Grigoli ‘re della grande distribuzione’.

«Se il signore di Ribera, con i tempi che corrono, avesse fatto ciò a chicchessia, a quest’ora sarebbe già in carcere perché chiunque sarebbe corso alla caserma a denunciarlo. Solo che ha capito che il mio paesano non ci andava alla caserma, lo ha capito – scriveva Matteo Messina Denaro – sia per il comportamento del mio paesano sia perché faceva il mio nome».

Di recente un altro imprenditore trapanese, Vito Nicastri, il ‘signore del vento’, come deἀnito dal Financial Times, è stato indicato dai magistrati come ‘vicino’, addirittura il prestanome di Messina Denaro. E per questo gli hanno sequestrato beni per un miliardo e mezzo di euro. E a ben guardare fra le carte di società, anche con sede nel misterioso Lussemburgo, (ma pure ai rapporti d’affari fra suoceri, cognati e generi) non è difἀcile scovare singolari collegamenti con imprese e nomi vicini anche alle attività del palermitano Vito Ciancimino.

Ma non c’è da stupirsi se si considera che l’ener-gia, soprattutto la metanizzazione, tra gli anni ’80 e ’90 ha visto le società di don Vito interessarsi alla metanizzazione di Caltanissetta, Alcamo e a svariate opere nel territorio di Palermo.

«Il nuovo corso di legalità – dice Davide Durante, presidente di Confindustria Trapani – è iniziato nel 2007. Anni di indagini avevano evidenziato come ci fossero stati uomini che si erano prestati facendo anche impresa con la mafia. C’era una forte commistione».
Poi è arrivato un vento nuovo che ha spazzato i rami secchi. Ma non sono stati staccati da espulsioni, sono caduti. Da soli. «Io – spiega Durante – ho chiesto di aderire al mio progetto di legalità a tutti gli associati e di presentare la documentazine, anche quella antimfia. In duecento hanno aderito subito, in 40 no, e sono usciti volontariamente da Conἀndustria.

Nessuno è stato espulso: non hanno aderito al progetto di legalità e quindi abbiamo adottato la conseguente delibera di espulsione» sottolinea Durante che preferisce parlare delle adesioni anziché rimarcare il numero, ridotto, di coloro che non ci sono più. «Preferisco pubblicizzare i numeri, crescenti, di imprenditori che aderiscono al progetto, ora sono 254, non quelli di chi viene espulso».

Confindustria Trapani, ha poi avviato la strada dell’automatica costituzione di parte civile. «Siamo presenti in tutti i processi in cui i nostri associati sono parte offesa, quindi vittime, o risultano imputati perché ritenuti collusi. La costituzione in giudizio è automatica con l’avvio dell’azione penale. Non devo riunire il consiglio per fare una valutazione. Tutto avviene in maniera asettica. Agiamo senza proclami, ma con i fatti».

A Trapani, però, oltre ad esserci imprenditori che fanno un percorso di legalità, «ce ne sono altri, che sono la mafia, che continuano a fare impresa e ci sono quelli che cercano la mafia per stare tranquilli» dice Mimma Argurio, segretaria della Cgil di Trapani che parla anche di «un intreccio politico mafioso, è inutile nascondersi».

Secondo l’agguerrita e arrabbiata sindacalista, la mafia avrebbe anche messo le mani sui servizi pubblici attraverso il sistema delle esternalizzazioni. «Abbiamo denunciato le esternalizzazioni degli enti pubblici che provocano un indebolimento dei servizi, abbassano i livelli di sicurezza dei lavoratori, provocano l’aumento del lavoro nero e indeboliscono il settore pubblico.
Gli intrecci con la mafia – ricorda Argurio – li abbiamo denunciati nel privato. Noi della Cgil – dice a proposito della Despar – non siamo mai entrati nella grande distribuzione. Siamo entrati dopo l’arresto di Grigoli, quando i lavoratori si sono liberati. Prima non c’erano relazioni sindacali.
La gente – aggiunge – in gran parte è consapevole di dove stia il bene e dove il male. Ma molti hanno paura e fanno finta di non vedere, sono disillusi. Ma il vento sta cambiando. È uno strano vento: non è maestrale e non è scirocco. Ma avremo tempi migliori».

 

 Tratto da: ILSUD

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