Via D’Amelio, Candura e le (troppe) ombre sull’inchiesta
Ombre sulle prime indagini della strage di via d’Amelio, sulla gestione dei collaboratori di giustizia e sulle modalità di svolgimento di alcuni interrogatori di Salvatore Candura, hanno fatto ingresso nel processo ‘Borsellino quater’ in corso in Corte d’assise a Caltanissetta. Il controesame dell’ex collaboratore di giustizia, svolto dagli avvocati Vania Giamporcaro e Flavio Sinatra che assistono Vincenzo Scarantino e Salvo Madonia, e dai patroni di parte civile Rosalba Di Gregorio e Pino Scozzola, ha evidenziato come su eventuali ulteriori responsabilità ci siano ancora molto cose da approfondire.
Nel corso dell’atto istruttorio è emerso che, in maniera assai curiosa, “i magistrati non mi hanno mai chiesto di individuare i luoghi dove era stata rubata la Fiat 126” ha detto Candura – riferendosi ai Pm che si occuparono delle prime indagini – che si era falsamente autoaccusato del furto della vettura. Poi il teste ha parlato di interrogatori durati tantissime ore con frequenti interruzioni – di cui non c’è traccia nei verbali – perché si metteva a piangere o perché non sapeva come rispondere. “Il magistrato che mi interrogava se ne accorgeva – ha sostenuto Candura – che io piangevo senza fermarmi. A quel punto Arnaldo La Barbera chiedeva la sospensione e durante la pausa mi appartavo, parlavo con La Barbera e quando tornavo riprendeva l’interrogatorio”.
L’ex pentito ha quindi rivelato di aver dichiarato in un verbale che Vincenzo Scarantino gli aveva dato una bustina di eroina e di averla poi ceduta ad una terza persona: “Per quei fatti, che comunque erano falsi, non sono mai stato processato”.
Candura ha poi ricordato come subito dopo il suo arresto, “quando venne fuori la storia della 126, La Barbera voleva che dicessi di averla avuta commissionata da Profeta. Io – ha spiegato – dissi che non lo conoscevo perché avevo a che fare solo con gli Scarantino ai quali lasciavo le vetture in un vicolo chiuso della Guadagna”. Secondo Candura “La Barbera insisteva perché accusassi Profeta” ma poi “mi disse: ‘devi dire che è stato lo Scarantino a commissionarti il furto’”. Restava il problema della consegna dell’auto nei pressi di via Cavour. “Quando Scarantino cominciò a collaborare accusandosi di essere il mandante del furto della Fiat 126 – ha detto Candura – ebbi la contezza oggettiva che era stato manipolato”.
Il teste, rispondendo ai legali ha quindi detto che “fu Arnaldo La Barbera a dirmi di nominare come mio difensore di fiducia l’avvocato Lucia Falzone del Foro di Caltanissetta”. Lo stesso che era stato indicato da Vincenzo Scarantino. “Lei – ha detto riferendosi al legale – ha partecipato a qualche mio interrogatorio, ma all’epoca pensai che difendere me e Scarantino era la stessa cosa” ha detto Candura ai giudici della Corte d’assise. “Non mi sono mai confidato con il mio avvocato – ha detto il teste – non lo vedevo sincero. Non vedevo che fosse li per difendermi, non interveniva”.
Candura infine ha detto alla Corte di avere paura soprattutto dopo che di recente gli è stato incendiato il ciclomotore.
Il processo prosegue giovedì prossimo.