BorsellinoQuater. Genchi: “La Barbera pensava alla carriera ma non era disonesto”
“Credo che lo Stato volesse colpire ad alzo zero e in maniera anche spregiudicata i corleonesi e per questo hanno utilizzato tutte le risorse per ottenere informazioni finalizzate all’arresto dei latitanti. Questa è stata la strategia dei governi Andreotti e Forlani dal 1987 e fino all’insediamento di Mancino al ministero dell’Interno”. E’ quanto ha sostenuto nel corso di una deposizione-fiume dinanzi alla Corte d’assise di Caltanissetta, Gioacchino Genchi, ex consulente informatico della procura nissena, destituito dalla polizia nel febbraio del 2011 per aver offeso l’onore e il prestigio dell’allora presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Genchi, che per anni è stato a stretto contatto – “gli ho anche dato le mie mutande una volta” ha detto – con il capo del gruppo Falcone-Borsellino, Arnaldo La Barbera, ha spiegato ai giudici di Caltanissetta che processano gli imputati del processo ‘Borsellino-quater’, che “quella di La Barbera era una semplice aspirazione di carriera. Per questo nel 1993 ha fatto il patto con il diavolo, ma non era un disonesto, credetemi”.
Genchi, che adesso svolge la professione di avvocato ma attende speranzoso la decisione del Tar sul suo ricorso contro la destituzione dalla Polizia, ha ricostruito i suoi rapporti con l’ex Capo della mobile di Palermo. Tutto iniziò nell’agosto del 1988. Genchi su ordine del capo della polizia, Parisi, si era messo a disposizione di La Barbera per ricostruire la squadra mobile palermitana. Il rapporto fra i due divenne sempre più stretto “anche se io gli davo sempre del lei”, fin quando, nel giugno 1989, non ci fu la vicenda di Totuccio Contorno a San Nicola l’Arena tornato in armi in Sicilia per cercare di far catturare i latitanti corleonesi.
“C’era uno Stato che pretendeva che queste persone venissero arrestate” ha detto Genchi. I ‘metodi’ e i ‘ritardi’ nell’arresto di Contorno, però, non piacquero a Genchi che decise di andar via da Palermo e rompere i rapporti con La Barbera. I contatti, però, ripresero qualche tempo dopo. “La Barbera aveva una amicizia personale con un funzionario dei servizi, il dottor Luigi De Sena”. Fu lui, secondo il teste, a fare da ‘paciere’ fra Genchi e La Barbera. “Io so – ha detto Genchi rispondendo ai Pm – che La Barbera riceveva un fuori busta mensile, era Parisi che gli mandava i soldi”.
Parlando del proprio operato nel corso delle indagini per la strage di Capaci, su incarico dell’allora procuratore capo, Salvatore Celesti, Genchi ha ricordato come dopo aver analizzato una delle agende elettroniche di Falcone ed aver scoperto il viaggio del magistrato negli Usa, per lui, e per La Barbera, cominciarono i problemi: “cambia tutto” ha ricordato. I magistrati nisseni volevano verificare un eventuale responsabilità degli Usa partendo dalla considerazione che la strage di Capaci aveva impedito ad Andreotti di diventare presidente della Repubblica e che anche Craxi aveva avuto ‘scontri’ con gli americani.
A ridosso del Natale 1992, La Barbera venne trasferito, senza incarico, al ministero dell’Interno, mentre a Genchi viene imposta una scorta – rifiutata – che, di fatto, lo avrebbe costretto a lasciare le indagini. Secondo il teste La Barbera sarebbe stato rimosso “perché prendeva direttive dai magistrati di Caltanissetta e puntava sparato sul ministero dell’Interno e sull’incontro del primo luglio 1992 fra Borsellino e Mancino”. Lui, doveva essere messo da parte perché aveva trovato traccia di quel viaggio.
“A quel punto – ha ricordato Genchi – io e La Barbera, per volontà della Procura di Caltanissetta ricevemmo un incarico ad personam dai Pm Ilda Boccassini e Fausto Cardella, con il consenso pieno del nuovo procuratore nisseno, Gianni Tinebra, con cui mettemmo con le spalle al muro il Ministero dell’Interno. Nacquero così i gruppi “Falcone-Borsellino”. Il teste ha poi ricordato come nel 1993 La Barbera venne convocato a Roma e al ritorno “mi disse che con lui non avevano niente e nemmeno con me ma che, visto che i carabinieri avevano fatto grossi passi avanti e avevano la soluzione di tutto, negli anni a venire a Palermo la polizia avrebbe dovuto fare un passo indietro”. Qualche giorno dopo i carabinieri arrestarono Totò Riina. La stessa sera del rientro da Roma, secondo quanto ha riferito Genchi “con La Barbera parlammo tutta la notte e lui pianse a dirotto anche perché toccammo aspetti personali. Gli dissi: ‘lei proprio alle persone a cui vuole più bene fa più male’”. La carriera prima di tutto, insomma: “Tutti hanno fatto carriera sul sangue che è stato sparso a Palermo” ha detto il teste citando nomi di funzionari di polizia. Genchi, che nel corso della deposizione aveva ricordato le proprie perplessità via via manifestate a La Barbera durante le indagini sulla strage di via d’Amelio e che portarono alla costruzione del ‘pupo’, ha quindi detto di aver deciso nel maggio del 1993 di interrompere i rapporti con la Procura di Caltanissetta. Genchi, però, ha affermato di non aver mai avuto il dubbio che le dichiarazioni di Salvatore Candura venissero via via costruite. L’unico magistrato nisseno con il quale Genchi ha detto di aver mantenuto i rapporti fu Fausto Cardella che lo chiamò poco prima di lasciare la Sicilia: “Sto lasciando la Sicilia dove non penso che tornerò mai più nella mia vita e volevo stringerle la mano” disse il magistrato a Genchi.
Nel corso dell’esame Genchi ha parlato di telefonini clonati, di Roberto Campesi, che ha definito “un cazzaro”, della presenza di Bruno Contrada a Roma il primo luglio 1992, del trasferimento dei detenuti dall’Ucciardone a Pianosa la notte della strage Borsellino, del suicidio e della lettera lasciata dal giudice Signorino, “agghiacciante, mi ha colpito più del suicidio, bisognerebbe rileggerla”, ma anche di un funzionario dei servizi segreti di Palermo. Rispondendo ad una precisa domanda dell’avvocato Fabio Repici che assiste Salvatore Borsellino, dopo aver affermato di non conoscere oltre a De Sena uomini dei servizi, Genchi ha poi chiarito: “Si, Nunzio Purpura lo conosco, è un collega che è stato pure alla polizia Stradale, era il Capo centro. Io non l’ho visto in via D’Amelio e non so se c’era”. Il processo riprende il 10 ottobre con l’esame di Salvatore Candura.
Gianpiero Casagni